Il Gay Pride nazionale è stato una festa strepitosa. Si respirava libertà, la gioia di esserci, di essere se stessi, di mostrarsi e di festeggiare era palpabile. C’erano tutti.
C’erano le ovvie delegazioni Arcigay, e c’era l’Unione Atei Agnostici e Razionalisti (loro un po’ più agguerriti che gioiosi, ma dev’essere una questione di carattere). C’era il movimento studentesco universitario e quello per l’identità transessuale, le famiglie arcobaleno sul trenino e i centri sociali di Bologna. C’era persino un carro buddhista con un enorme fiore di loto. C’era il carro goa gay. Quello fetish. C’erano i carri lustrini-e-paillettes e c’era la Lesbicamionetta delle “Lesbiche femministe autodeterminate antifasciste antirazziste”. C’erano le drag queen e le “amiche etero”, abiti fantasiosi e petti nudi, persone qualsiasi, giovani e meno giovani, qualche metallaro – forse sbandato dal Gods of Metal, spettatori che si godevano la vista dai balconi – regolarmente acclamati, con particolare riguardo alle “nonne”.
C’erano cartelli seri (“Vogliamo un lavoro diurno”) e cartelli buffi (“Dio mi ha fatto a sua immagine e somiglianza, e lui non sbaglia!”), carri ricercati e carri arrangiati, bandiere arcobaleno e bandiere rosse con falce e martello… c’erano veramente tutti, e tutti si divertivano un mondo.
E sì, c’ero anche io. Per due motivi: uno personale, istintivo, estetico; e uno sociale, razionale, etico.
Il motivo personale è che da sempre subisco il fascino dell’ambiguità, dell’indeterminatezza – e dell’autodeterminazione. Dell’androginia, non solo e non tanto come unione degli opposti, ma come incarnazione di un ideale, quello secondo cui un altro mondo è possibile.
Possiamo forgiare noi stessi a nostra immagine e somiglianza, possiamo scegliere una strada che non era stata prevista, possiamo costruire nuove strade dove nessuno le ha tracciate – o in quei luoghi controversi dove l’umanità continua ad aprire e murare strade un secolo dopo l’altro. Chi vive un’identità e una sessualità diverse da quelle predefinite ha ai miei occhi tutto il fascino di un’opera d’arte, realizzata e mostrata istante per istante nella propria vita.
Ecco, il mio motivo estetico – sciocco, superficiale e personale – è un po’ questo, e spero che il ragazzo nella foto non me ne voglia per averlo preso a simbolo di tutto ciò.
E’ anche per dare il mio piccolissimo contributo a rendere più agevolmente praticabili queste nuove strade che ho camminato per tutto il percorso del Pride – diversi chilometri e 6 ore abbondanti di musica striscioni e fotografie-; ma il motivo più serio – perchè non voglio negare che in fondo siamo tutti egoisti – l’hanno espresso meravigliosamente le donne che aspettavano il primo corteo all’ingresso dei Giardini Margherita con uno striscione di tulle rosso: ci riguarda tutte.
Poichè si parla di autodeterminazione, di libertà dell’individuo, di libertà nel gestire il proprio corpo e la propria vita, libertà dalla morale dominante, indipendenza da ogni chiesa… poichè è ancora di questo che si parla – dopo 40 anni dal ’68 – la cosa ci riguarda. Ci riguarda tutte (e tutti, certo), in prima persona.
Così mi piace pensare di aver contribuito a dare una spintarella alla nostra società, per farla finalmente transitare verso un mondo più capace di gioire della multiformità della vita – e non limitarsi a tollerarla come una mosca in cucina. Abbiamo, insomma, seminato un po’ di buoni propositi.
E riuscire a fare tutto questo con una grande festa, poi…. beh, è una soddisfazione!